“Dire che di un fatto manca la prova non equivale, di per sé, a dire che quel fatto è da ritenere contestato” – riflessioni su una recente pronuncia della Cassazione.
Con ordinanza n. 17889 del 27.8.2020, la Suprema Corte, con logica stringente, distingue la contestazione del raggiungimento della prova del fatto richiamato in giudizio dalla contestazione della sua esistenza ex art. 115 c.p.c.. Secondo gli Ermellini, solo in presenza di una specifica contestazione della verità del fatto in sé, il giudice può considerare contestato il fatto dedotto.
Dice ancora la Cassazione che il giudice, interpretata la condotta processuale come una “non contestazione”, avrebbe dovuto procedere ad una valutazione complessiva delle prove acquisite al processo, al fine di accertare se – ancorché per via indiretta/inferenziale – il fatto (non contestato) risultasse comprovato (esame che la Suprema Corte rimette al giudice del rinvio).
Mi sembra solo apparente il contrasto di tale enunciato con l’orientamento giurisprudenziale (invero prevalente) che configura la non contestazione come una relevatio ab onere probandi, con la conseguenza di esonerare il giudice da “qualsivoglia controllo probatorio del fatto…ritenendolo sussistente” (Cass. civ. Sez. III Sent., 17-06-2016, n. 12517).
Difatti, l’espunzione del fatto dal thema probandum, che consegue ad una sua mancata contestazione, è circoscritta dalla giurisprudenza ai fatti c.d. “principali”, e cioè ai fatti costitutivi posti a fondamento della domanda o ai fatti impeditivi, estintivi o modificativi allegati con le eccezioni (“La mancanza di specifica contestazione, se riferita ai fatti principali, comporta la superfluità della relativa prova perché non controversi, mentre se è riferita ai fatti secondari consente al giudice solo di utilizzarli liberamente quali argomenti di prova” Cass. civ. Sez. I Sent., 02-10-2015, n. 19709).
L’ordinanza in commento si riferisce invece ad un fatto “secondario”, teso a dimostrare la sussistenza dei fatti principali dedotti dall’attore.
L’ordinanza riprende allora l’orientamento, più volte espresso dalla Cassazione, che raccomanda di valutare le prove indiziarie, o meglio i fatti noti su cui si fonda il ragionamento presuntivo, le une per mezzo delle altre, con un apprezzamento per così dire “globale” (Cass. Civ. Sez. III, sent., 9.3.2021, n. 3703).
Ho piacere di osservare che la pronuncia omette di riferire al fatto secondario non contestato l’efficacia dell’argomento di prova, richiamata invece dalla giurisprudenza che ha circoscritto la portata del principio di non contestazione ai fatti principali. Mi sembra infatti che, a rigore di legge, non è il fatto (secondario) incontestato a poter costituire argomento di prova, ma la non contestazione in sé, quale espressione della condotta processuale della parte (ex art. 116 c.p.c.). Il fatto secondario non specificamente contestato (quale fatto noto su cui è possibile poggiare il ragionamento inferenziale), esclusa l’applicazione dei principi enunciati dagli artt. 115, 167 e 416 c.p.c., dovrebbe allora essere apprezzato nella valutazione complessiva dei fatti allegati dalle parti, come invero sembra suggerire l’ordinanza – purtroppo laconica – che qui si commenta.
Francesca Marchetti